lunedì 21 settembre 2009

PERCHE' LA NOSTRA E' UN'ECONOMIA VIOLENTA

Mettere in discussione, da profani, il sistema economico vigente significa innanzitutto comprendere dove ci ha portati.

1. L'economia attuale è altamente violenta nei confronti dell'ambiente: inquina e sforna rifiuti, distrugge la biodiversità, è dissipativa, consuma le risorse comuni senza tener conto del loro ciclo naturale e ignora l'imperativo di lasciare tali risorse anche alle generazioni future.

2. è violenta verso i popoli del Sud del mondo: in larga parte non tiene in considerazione i più elementari diritti umani, come il diritto al cibo, all'acqua, all'istruzione, al lavoro in condizioni dignitose, alla giusta ricompensa per il lavoro svolto, alla possibilità di esprimere dissenso.

3. è alienante e spesso patogena verso le persone che nel ricco occidente con la loro adesione acritica a tale modello economico alimentano l'ingranaggio stritolante dello sviluppo senza limiti in un mondo finito. Pena l'esclusione sociale e la perdita di ruolo.

L'economia attuale è violenta dunque anche in casa nostra, in termini di cronica mancanza di tempo, di insoddisfazione diffusa, di degenerazione dei rapporti, di nevrosi quotidiane, di psicosi e di sociopatie che si esprimono con varie modalità, e sempre con una mortifera mancanza di senso.

Le tendenze drogastiche di una società che non accetta il limite si scontano inoltre con l'incalzare di generazioni che fanno delle droghe il loro spavaldo, onnipotente vessillo.

Figli, anche i nostri, di un'economia violenta.

A livello macro, la globalizzazione dei mercati vede sempre di più l'intreccio di interessi economici che coinvolgono multinazionali, governi delle maggiori potenze, poteri locali legati ai paesi in via di sviluppo, Borse, Banca mondiale e Banche locali, organizzazioni per il commercio; il risultato è un groviglio di cui noi siamo i fili inconsapevoli, con piani discussi sopra le nostre teste, lucidamente costruiti a tavolino o paralleli ai summit delle grandi promesse e dei grandi impegni. I protagonisti sanno, proclamandolo come faceva Bush o semplicemente agendolo, come i governi della buona e vecchia Europa, che non si farà nulla che danneggi la propria economia.

In Italia, ad esempio, non stiamo tanto a sottilizzare se questa o quella banca rientrano nel commercio di armi, visto che la nostra democratica repubblica ospita e sovvenziona, direttamente o indirettamente, fabbriche di armi per guerre vicine e lontane, attuali o future. Non ci scandalizziamo neppure se alcune tra le più importanti imprese italiane aprono società offshore nei paesi “a fiscalità vantaggiosa”, o appaltano a società che a loro volta utilizzano manodopera a basso costo, con nessuna garanzia di dignità per gli ultimi anelli della catena.

L'importante è che cresca il PIL.

L'Europa continua ad abbassare il livello di guardia contro gli OGM e contro l'uso di prodotti chimici in agricoltura. Per far crescere il PIL non si esita a creare condizioni sempre più sfavorevoli all'uomo e all'ambiente. In Italia da varie parti si invoca l'aumento delle ore di lavoro settimanali. Se cresce il PIL si può sopportare anche lo sfacelo dei rapporti. Anzi, in qualche modo questo alimenta il business disagio-malattia-prevenzione-terapia.

Ivan Illich, parlando dei professionisti della salute (ivi compresi gli psicologi, ndr) ben evidenziava tale fenomeno, chiamandolo iatrogenesi sociale, che “insorge allorché la burocrazia medica crea cattiva salute aumentando lo stress, moltiplicando rapporti di dipendenza che rendono inabili, generando nuovi bisogni dolorosi, abbassando i livelli di sopportazione del disagio o del dolore, riducendo il margine di tolleranza che si usa concedere all'individuo che soffre (...) o quando il soffrire, il piangere e il guarire al di fuori del ruolo di paziente sono classificati come una forma di devianza” (I. Illich, Nemesi medica. L'espropiazione della salute, Boroli ed., pag. 48).

Iatrogenesi, ossessione per la crescita, alienazione, ingiustizia a livello sociale, conflitti intra e inter comunità fomentano un circolo vizioso, e molti si chiedono se sia ancora possibile costruire un'altra economia. “La misura in cui saremo in grado di affrontare l'era della globalizzazione (e forse la possibilità stessa di saperla affrontare) dipenderà da come risponderemo eticamente all'idea che noi viviamo in unico mondo. Per le nazioni ricche non assumere un punto di vista etico globale è stato a lungo seriamente sbagliato dal punto di vista morale. Ora è anche, nel lungo termine, un pericolo per la loro sicurezza” (P. Singer, One world, cit., p.169).

(Da CarmelaLongo, Per un'economia solidale, Asclepiadi del terzo millennio, 2008)

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